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Il principio della buona fede nelle frodi IVA

Il momento è di quelli caldi per la fiscalità internazionale per diverse ragioni.
In primis, si sta discutendo molto della “web tax” al fine di assoggettare ad imposte i colossi del web negli Stati ove producono il fatturato.
Tra l’altro, è ancora aperta la partita sui contanti detenuti all’estero (l’adesione alla voluntary disclosure bis è in scadenza oggi) e attraverso lo scambio automatico di informazioni tra gli Stati sarà possibile conoscere il nominativo di chi detiene conti e ricchezze all’estero.

In questo contesto di particolare attenzione e di contrasto al fenomeno delle frodi fiscali, il contribuente implicato in un caso di frode IVA può essere soccorso dal principio di buona fede, coniato dalla Corte di Giustizia UE.
Il contribuente si può avvalere della tutela di tale principio quando né sapeva né avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode. Questo principio viene applicato, ad esempio, nelle ipotesi di fatture soggettivamente inesistenti: a ribadirlo è la Corte di Cassazione con sentenza n. 21740/2017.

Sull’amministrazione finanziaria incombe l’onere di dimostrare che il contribuente era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza che con la propria transazione partecipava ad una frode.
D’altro canto grava, invece, sul contribuente un onere di controllo “ragionevole” sull’impresa fatturante.

Paolo Ghiselli

Difensore cassazionista del Foro di Rimini, che si è specializzato nella difesa tecnica di procedimenti per reati societari, anche attraverso l’esperienza maturata nella redazione delle note a sentenza per le riviste specialistiche del Sole 24 Ore.
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